Vecchie conoscenze
di Aldo Cesaraccio (anni 1974-75 ?)

Nel 1948, poco prima del fatale 18 aprile, venne a Sassari Alcide Degasperi per un comizio elettorale. In quel tempo La Nuova, rinata da appena un anno e della quale era redattore capo, teneva un atteggiamento assai meno allarmistico del resto della stampa italiana: avevamo previsto, senza nostro merito personale, i percoli di una maggioranza assoluta (e non sbagliammo). Pertanto, eravamo invisi ai locali padroni del vapore, tanto più che allora a Sassari usciva Il corriere dell'Isola quotidiano democristiano che aveva fatto in tempo a uscire prima che riprendesse le pubblicazioni il nostro.

 

Dopo il comizio, Degasperi entrò nel Palazzo della Provincia, in piazza d'Italia, il cui ingresso fu subito sbarrato dalle forze di polizia. Lo sbarramento, ogni tanto, si apriva per far passare qualche sacerdote (c'era, disperato, il cappellano di Fertilia, venuto a perorare la causa dei profughi che, dopo aver approdato sulla costa algherese, erano stati investiti dall'ondata delle porcherie sbucata da un pozzo nero saltato per aria), passava qualche gerarca democristiano e, naturalmente, tutti i redattori, collaboratori, impiegati e sottocuochi del giornale democristiano. Visto ciò, anch'io tessera de La Nuova in mano, feci per passare, ma i poliziotti, terribili, mi negarono il passo: quella tessera non valeva nulla, forse serviva soltanto per avere qualche favore da Satana, non dai semidei democristiani dell'ora.
In quel preciso momento, sentii dire alle mie spalle: «Sono il sindaco di Sassari che va a rendere omaggio al presidente del Consiglio; se però non passa anche il dottor Cesaraccio, non entro neanch'io». Fu necessario l'intervento di un commissario non ancora catechizzato e io pure entrai nell'austero «covo».

Era il sindaco Pieroni, anch'egli democristiano, ma che fin da allora esibiva chiaramente il suo segreto: essere il sindaco di tutti e non ricevere ordini dal proprio partito quando si trattava di rappresentare anche quelli che ne erano fuori. L'episodietto riferito era una piccola prova di questa realtà.

Venti-venticinque anni fa, nessuno avrebbe collocato il nome di Oreste Pieroni fra quelli dei « grandi » rappresentanti di città (Baccaredda, Mariotti, Satta Branca ecc.); oggi lo vi si colloca d'imperio, visti tutti gli altri. Eppure egli giunse alla massima magistratura cittadina attraverso un'operazione dubbia, come allora apparve, quando il suo partito decise si defenestrare, nel 1946, il primo sindaco appena eletto dopo l'epoca dei podestà, Candido Mura, che era arrivato alla carica in un alone di popolarità e che era stato costretto ad andarsene, senza fiatare, dopo la prima « discesa » di Candelieri, lasciando il posto al suo vice sindaco, ch'era appunto Oreste Pieroni.

Pieroni, nel giro di pochi giorni, fece cessare ogni emotivo rimpianto del predecessore. Era un bancario, abituato alle cifre; proveniva da famiglia povera; era sassarese fino al midollo; sapeva più sorridere che fare la faccia feroce, quella faccia larga e ghiottona che pareva fabbricata per una solare cordialità; sapeva amministrare e come tale era stato già dal fascismo fagocitato quale ispettore federale amministrativo, ma dimostrava (come tanti e tanti altri, qui a Sassari) di non aver nulla di cui vergognarsi per ciò che aveva fatto durante il « ventennio », allorchè tanti suoi compagni di partito, prodigiosamente, riuscivano ad aprire una falla di venti anni quando raccontavano il loro curriculum come se per vent'anni fossero entrati in letargo aspettando all'orizzonte un qualsiasi lume dell'avvenire.

Perchè, adesso, l'epoca di Pieroni è ricordata come un'epoca favolosa, quasi irripetibile, durante la quale nessuno era del tutto scontento in una città che mai era stata contenta? A mio parere, per due ragioni: perchè la maggioranza democristiana aveva davanti a sè una formidabile opposizione e perchè a capo dell'ufficio tecnico del Comune c'era un ingegnere,
Enrico Pisano (sollecitamente dai sassaresi promosso al vezzeggiativo: « Pisaneddu »), che svolgeva un'attività incredibile, dalle 4 del mattino in poi.

Il Consiglio: ho detto che c'era una formidabile opposizione. Le amministrazioni presiedute da Pieroni hanno dimostrato -- e oggi come oggi potrebbero essere consultate come manuale -- che la buona gestione di un comune è affidata meno all'albagia della maggioranza che alla consistenza dell'opposizione. A capo di questa sedeva il socialista
Sebastiano Macciotta, ch'era stato vice sindaco di Napoli nel pre-fascismo. C'era Ignazio De Villa, che era stato sindaco nominato dopo le dimissioni dell'ultimo podestà (fu un galantuomo succeduto, per la verità, a un altro galantuomo). C'era il comunista Luigi Polano che oggi -- con la teoria del « compromesso » -- passerebbe per profeta o per precursore. Fra i sardisti c'era Bartolomeo Sotgiu. A destra si vedevano omini come Attilio Fais e Giosue Muzzo.

Con sassaresi di tale calibro, Oreste Pieroni si sentiva in casa sua. Ma aveva anche l'abilità di far sentire in casa loro gli oppositori: tutti, nessuno escluso. Ricordo ancora l'episodio di Platamona. Si trattava dell'acquisto della pineta. Pieroni aveva portato l'intero Consiglio sul luogo, prima di decidere. Poi aveva aperto il dibattito. Erano tutti d'accordo, dai democristiani ai comunisti ai monarchici ecc.; tutti.

Uno solo, Attilio Fais, si schierò contro. Fu in quell'occasione ch'egli coniò la qualifica di « parlamentino cinese » per quel Consiglio comunale (lo avessimo adesso!), qualifica divenuta ormai proverbiale. Però, disse, egli sentiva il dovere di sottrarsi alla giostra di complimenti che reciprocamente maggioranza e opposizione aveva deciso di far girare: egli era contrario all'acquisto della pineta e alla valorizzazione di Platamona. « Siamo stati sul posto: è una steppa. Il mio amico Polano, che di steppe se ne intende, non potrebbe negarlo ». E annunciò il voto contrario.

Pieroni sospese la votazione che aveva aperto (gli oratori prendevano la parola per dichiarazione di voto) e rivolse un animato e familiare discorsetto esclusivamente all'avvocato Fais le mani le alzò tutte e due.

Tra gli altri capolavori di Pieroni; un bilancio comunale che ebbe per relatore uno della maggioranza, il capo dell'opposizione socialista, Macciotta.

L'abbondanza di deliberazioni « passate » all'unanimità durante otto anni sta a testimoniare che l' « l'epoca di Pieroni » è stata irripetibile per Sassari. Forse è colpa dei sassaresi che, successivamente, hanno votato sempre peggio, o dei partiti che, aumentate le paghe per i mandanti importanti, riserbano ai figli i seggi dell'amministrazione comunale, con le conseguenze che noi (non loro) stiamo continuamente pagando.

Secondo elemento di forza: Pisaneddu. Era un uomo elettrico, pieno di idee e di volontà di attuarle. A vederlo nessuno gli avrebbe dato cinque lire di credito; a lasciarlo fare, c'era da aumentare la stima storicamente riservata agli uomini di bassa statura. Dalle 4 del mattino era in circolazione elle 8, quando entravano i suoi collaboratori in ufficio, la giornata era già accuratamente predisposta per tutti. Con niente, così, si ottennero sistemazioni di interi quartieri, mediante l'accorto e sorvegliato lavoro manuale degli operai del Comune. Di fronte a tante attuazioni, io stesso, che in decenni di attività cronistica avevo maturato teorie solidissime intorno al vandalismo congenito dei miei concittadini minorenni, dovetti ritornare da capo nei giudizi nel vedere fioritissime aiuole che nessuno calpestava, facciate di case che si rinnovavano per gelosa intraprendenza dei proprietari, vigili urbani che al comando di
Pagliano sembravano balzar fuori ogni giorno dalla trincea, mentre a Palazzo Ducale i cittadini andavano dal sindaco come da un vescovo (ci andavano perfino i coniugi che avevano litigato e che venivano facilmente indotti a far pace).

Ma la cosa sostanziale era questa: il partito che aveva espresso il sindaco e la maggioranza, non soltanto non si sognava di dare direttive a Pieroni, ma ne riceveva da lui e fu docile nell'assecondarne l'opera, senza mai costringerla secondo schemi di potere o di intrallazzo. Era, dunque, un segreto molto semplice, quello di questo quasi mitico sindaco, un segreto che avrebbe ancora qualche cosa da insegnare a tutti, specialmente a quei velenosi uomini di parte che, non sapendo per se stessi fare nulla nè di buono nè di cattivo, svolgono una certa vocazione a mettere il bastone fra le ruote di chi fa circolare il carro al servizio di tutti e con soddisfazione dei più. Pieroni, anche se non lo si vede più in giro (gli acciacchi, i dispiaceri, le malattie), può vantare una sorte a ben pochi riservata in questo mondo dissennato e blasfemo: quello di sentirsi da vivo « fischiare gli orecchi » nel suo rifugio domestico, quando la gente parla di lui con nostalgia e con rimpianto, cosa che i miei concittadini, per antica tradizione, conservano di solito soltanto a persone di cui sia stata bene accertata la morte.